Mark Cavendish vince la Saint-Jean-de-Maurienne-Saint Vulbas e vince per la trentacinquesima volta alla Grande Boucle: è un record. Un primato che lo fa entrare dritto nella leggenda del ciclismo permettendogli di superare Eddie Merckx. «Non ci credo, sono incredulo – ha detto all’arrivo- È qualcosa di unico. L’Astana ha fatto una grande scommessa su questa vittoria…”.

Scommessa vinta e meno male perché la 35ma vittoria al Tour stava diventando un’ossessione. Ha sofferto il britannico. Un inizio complicatissimo già dalla prima tappa di Rimini dove ha perso più di mezz’ora, poi il Galibier che non fa sconti a nessuno figurarsi i velocisti: ma non ha mollato perché sapeva che sarebbero arrivati giorni migliori, sapeva che oggi, in questo angolo di Francia tra le campagne del Rodano, sarebbe stato il tempo per ruote veloci come le sue. E l’aveva cerchiata di rosso la volata.

Adesso o mai più, si è infilato come un rapace tra avversari e transenne e con uno sprint famelico ha messo dietro tutti: una liberazione, che lo consegna alla storia e che arriva dopo un ripensamento perché il suo ultimo Tour doveva essere quello dello scorso anno quando aveva annunciato il ritiro festeggiando una carriera sontuosa con oltre 160 vittorie, con un mondiale nel 2011, con tre ori iridati in pista nell’americana, con un argento olimpico nell’omnium a Rio 2016, con un Milano-Sanremo. Ma quella 35ma vittoria alla Grande Boucle più che un sogno era un tarlo: “Cannonball” che mette la sua ruota davanti a quella del  “Cannibale”, Cavendish che supera Merckx.

Anche se è chiaro che non è la stessa cosa, che sono mondi, pianeti, campioni diversi, storie diverse. Che il belga è inarrivabile per tutti e non solo per il campione dell’isola di Man. Ma Cavendish resta Cavendish con tutte le differenze e magari senza fare paragoni, con tutti i distinguo, con tutte le distanze del caso. E un posto lo trova nella galassia di un ciclismo combattente e vincente che lui, come pochi, ha interpretato a gomiti larghi. E’ la storia di “The Manx Missile”, ruota a ruota che non cambia di un nulla lo stile di vita di uno abituato a fare a “sportellate”.

Sposato, quattro figli, ha tenuto per 25 anni la bici al centro della sua vita: passione, lavoro, gloria e vittorie. Una vita dove devi solo pensare a pedalare, ad allenarti a sprintare. Come se il mondo intorno a te non esistesse. E invece esiste tant’è che ogni tanto ti riporta a terra, ti mette faccia a faccia con avversari che non si battono con un colpo di reni come il virus di Epstein-Barr ma soprattutto come la depressione. E sembra arrivato il capolinea. Si spegne la luce e il ciclismo passa in secondo piano. Due anni al buio senza stimoli, senza voglia ma soprattutto senza più squadra, senza più lavoro, senza nessuno.

Patrick Lefevere team manager della Deuceuninck, lo squadrone belga in cui Cavendish aveva corso e vinto che gli tende una mano…a patto che si trovi uno sponsor che gli paghi lo stipendio. Una scommessa per tutti, ma per uno abituato a sgomitare negli sprint, a scartare a 80 all’ora e a limare i millimetri dei tubolari non può essere un problema. E infatti riparte. Nell’ aprile di tre anni fa nella seconda tappa del Giro di Turchia ritorna a mettere in fila  tutti quanti. Strano il ciclismo, strana la vita. Cannonball che lo scorso anno al Tour aveva salutato tutti quest’anno è tornato. Aveva un conto da regolare con la storia. Per i saluti c’è ancora tempo.

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Antonio Ruzzo
Sposato, con tre figli, giornalista professionista dal 1995. Il mestiere mi ha portato per anni a raccontare storie di nera e di morti ammazzati, la vita a inseguire sogni e passioni in bicicletta. Triatleta (scarso) da anni racconto quotidianamente lo sport nel blog “Vado di corsa” sul sito di un quotidiano nazionale. Ho un debole per chi non vince mai, per chi sa che il traguardo è lontanissimo ma non molla e per chi impazzisce per il profumo dell'olio canforato.

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