Lo sport è politica. Il trionfo della 4×100, l’exploit dell’atletica italiana e il record di medaglie della spedizione azzurra a Tokyo impongono una riflessione che solo marginalmente è stata toccata in queste ore sulle pagine dei giornali; forse per non turbare il clima di unità nazionale o per cercare di tenere lontani i temi forti dallo sport, che nella vulgata generale deve rimanere indipendente.

Eppure un uomo di centro, di solito compassato e moderato come è il presidente del CONI Malagò non l’aveva toccata piano, qualche giorno fa dopo la vittoria di Marcell Jacobs nei 100 metri: “Bisogna riconoscere lo ius soli sportivo”.

La moderazione dei media ufficiali oggi ha permesso di decantare il successo complessivo di un Paese: da nord al sud, con equa partecipazione di tutte le regioni, i dialetti e i campanili. Anche Walter Veltroni, su la Gazzetta dello Sport, non è andato oltre. E si che fino a poco tempo fa era uno dei rappresentanti più autorevoli di un partito che anni addietro aveva fatto del multiculturalismo una delle proprie battaglie. Invece si è limitato a sottolineare per certi versi l’ovvio: i successi di Tokyo dimostrano un paese che si è rimesso in marcia dopo lo stop del covid.

Su il Corriere della Sera Marco Imarisio oggi va oltre e a mio avviso affronta quello che io personalmente ritengo il maggior contributo di questa Olimpiade. Nell’articolo dal titolo: Lo sport rivela un paese nuovo Imarisio scrive: “L’ultima medaglia d’oro in ordine di tempo sembra il manifesto di un futuro che è già arrivato all’insaputa della nostra politica, sempre presa da discussioni spesso strumentali, comunque già superate dalla realtà…” e conclude: “Il nostro sport è cambiato perché è cambiato il Paese che rappresenta. Nella delegazione italiano erano presenti 46 atleti nati all’estero, oltre a quelli nati in Italia da genitori stranieri. Abbiamo avuto il primo italiano convertito all’Islam vincitore di una medaglia d’oro. Abbiamo avuto donne che hanno dedicato le loro medaglie alle loro fidanzate e altre che hanno saputo emanciparsi a livello sociale e personale…”. Un articolo illuminante, di cui consiglio la lettura.

Una sfumatura però non condivido, ed è legata all’idea che questa trasformazione del nostro sport sia arrivata prima di altri paesi, come se noi fossimo precursori. In realtà Gran Bretagna, Francia e Germania da tempo hanno preso coscienza che le loro società sono profondamente cambiate. A Rio sono finite avanti a noi proprio per questo, mentre noi ancora discutevamo sullo ius soli, sportivo e non.

Il brutto è che stiamo ancora discutendo. Per una area politica ben definita la mamma di Eseosa Desalu non sarebbe mai dovuta arrivare in Italia, ma respinta alla frontiera perché “prima gli italiani”. Per una ben delineata area culturale, la famiglia di Jacobs non dovrebbe avere piena cittadinanza e parità di diritti, in quanto non tradizionale. Lucilla Boari, poi, avrebbe dovuto tacere, se non addirittura nascondere.

Per non parlare poi di Stano, che tutti i media si sono affrettati a ricordare convertito all’Islam, come se fosse la cosa più importante della sua storia umana. Per molti questa scelta religiosa significa un attacco ai valori fondanti della nostra società, dimenticando secoli e secoli di contaminazione; che se non fosse stato per l’Islam a quest’ora probabilmente staremo ancora a contare con i numeri romani.

Lo sport italiano, queste Olimpiadi e soprattutto l’atletica italiana sono un manifesto politico chiaro ed evidente; è ipocrita non ricordarlo, anche se adesso salgono tutti sul carro dei vincitori.

Vincitori, è bene ricordarlo, nonostante la politica italiana.

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Antonio Ungaro
Giornalista sportivo e blogger. I primi ricordi sportivi sono le imprese di Gimondi al Giro d'Italia e il 5 Nazioni raccontato da Paolo Rosi. Dietro ad ogni sportivo c'è una storia da raccontare; tutte insieme raccontano un Paese che cambia. Sono convinto, parafrasando Mourinho, che chi sa solo di uno sport non sa nulla di sport.