Cento anni fa, nel 1922, per i tipi dell’editore Bemporad di Firenze, fu pubblicato il romanzo breve “La scacchiera davanti allo specchio” di Massimo Bontempelli. Romanzo scritto per i ragazzi, definito “racconto strambissimo e quasi incredibile”. La trama in sintesi: rinchiuso in una stanza, un ragazzino di dieci anni, che funge da narratore, conosce il Re degli Scacchi che lo conduce in una pianura senza giorno e notte, senza intemperie o cose naturali da osservare; uno spazio infinito dove si trovano le immagini di tutti coloro che si sono guardati anche una sola volta in uno specchio.
È in questo racconto che troviamo una delle frasi scacchisticamente celebri di Bontempelli, quando il Re degli Scacchi ad un certo punto dice: “Gli Scacchi sono molto, molto più antichi degli uomini; molti secoli dopo che esistevano gli scacchi sono nati gli uomini, che sono all’ingrosso una specie di pedoni, con i loro alfieri, re e regine; ed anche i cavalli, ad imitazione di quelli degli scacchi. Poi gli uomini hanno fabbricato delle torri; hanno poi fatto anche altre cose, ma quelle sono tutte superflue. E tutto quello che accade tra gli uomini, specialmente le cose più importanti che si studiano poi nella storia, non sono altro che imitazioni confuse e variazioni impasticciate di grandi partite a scacchi. Solo noi Scacchi siamo veramente eterni.”
Massimo Bontempelli (Como, 12 maggio 1878 – Roma, 21 luglio 1960) era figlio di un ingegnere delle Ferrovie dello Stato che per motivi di lavoro si trasferiva frequentemente con la famiglia da una città all’altra. Massimo frequentò il liceo (classico) a Milano, prese la maturità ad Alessandria (1897), poi frequentò la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino, laureandosi nel 1902.
Nel 1921 e 1922 visse a Parigi. Si trasferì poi a Milano, dove rimase fino al 1924, quando andò a vivere a Roma.
Imparò le mosse e le regole degli scacchi negli anni del soggiorno a Parigi quando molti amici provarono a insegnargli a giocare, ma non si interessò mai al gioco vivo.
Gli scacchi lo appassionarono invece dal punto di vista per così dire filosofico e questo lo portò a scrivere alcune frasi particolarmente eclatanti per gli scacchi stessi. Una l’abbiamo appena letta, un’altra, forse la più nota, la troviamo in un articolo che scrisse per il quindicinale «La terza pagina», in cui parlò della esibizione in simultanea ‘alla cieca’ di Alekhine a Milano il 26 marzo 1923 contro dieci avversari.
Giocare ‘alla cieca’ significa non vedere la scacchiera, le mosse trasmesse a voce, la posizione tenuta a mente; giocare dieci partite in questo modo richiede evidentemente un grande sforzo mentale. Facciamo una piccola digressione e torniamo al luglio 1783, quando il campione francese Francois André Danican Philidor giocò tre partite in simultanea alla cieca, stabilendo un record strabiliante per l’epoca, che destò grande sensazione. L’avvenimento si svolse in Inghilterra, al Parsloe’s Chess Club di Londra e riscosse un tale successo che Philidor proseguì nell’esibizione per parecchi mesi. Questo sforzo di memoria venne registrato come straordinario anche nella famosa “Encyclopedie” francese del periodo illuminista e spinse Diderot, che tra l’altro era il medico di Philidor, a scrivergli da Parigi affinché smettesse con quelle esibizioni, poiché “è stupido correre il rischio di diventare pazzi per appagare la propria vanita’”.
Torniamo a Massimo Bontempelli.
Per la rivista quindicinale «La terza pagina» Bontempelli scrisse complessivamente 71 articoli che poi furono raccolti in un volumetto pubblicato nel 1924 a Roma, dapprima con il titolo «Cronache della quindicina» e poi con il titolo definitivo «La donna del Nadir».
È in questo articolo che, come abbiamo detto, troviamo una delle frasi più belle e più ricordate sul Nobil Giuoco.
“Il gioco degli scacchi preesisteva probabilmente alla apparizione dell’uomo e forse anche alla creazione del mondo. E se il mondo ripiomberà nel caos e il caos si dissolverà nel nulla, il gioco degli scacchi rimarrà, fuori dello spazio e del tempo, partecipe dell’eternità delle idee.”
Rileggiamo l’intero articolo.
«Ho letto con ammirazione stupefatta e paurosa la descrizione della satanica prova agli scacchi compiuta l’altro giorno a Milano da Alekhine, Alekhine il Grande: il quale ha giocato dieci partite contemporaneamente contro dieci distinti avversari; e mentre ognuno di questi aveva davanti a sé la scacchiera, egli, Alekhine il Grande, stava seduto in una poltrona, con le spalle voltate agli avversari e alle scacchiere, e non aveva dinanzi a sé nulla: e così a memoria rapidamente vinse quasi tutte le partite rimanendo per quasi otto ore fermo là a guardare in un angolo vuoto, e pronunciare indicazioni cabalistiche (ovviamente si riferisce alle mosse date in notazione).
Certo, è più grande colui che con immagini e pensieri crea mondi spirituali e fantastici: Dante Alighieri, per esempio, è più grande di Alekhine il Grande. Ma l’ammirazione che possiamo avere per Dante è meno stupefatta di quella che in noi suscita Alekhine. Dante opera con facoltà delle quali ognuno ha in sé il germe: Alekhine opera all’infuori di ogni facoltà umana. È il signore di qualche potenza di cui ci è occulto ogni principio. L’ammirazione che possiamo tributargli è necessariamente fatta di paura. Ciò che egli compie ha in sé qualcosa di inumano e di atroce.
Non senza ragione del gioco degli scacchi non si conosce l’origine: esso probabilmente preesisteva all’apparire dell’uomo sulla terra, e forse anche alla creazione del mondo; e se il mondo ripiomberà nel caos, e il caos si ridissolverà nel nulla, il gioco degli scacchi rimarrà, fuori dello spazio e del tempo, partecipe dell’eternità delle Idee.
Perciò, mentre esso è immune di ogni elemento fisico, d’ogni manualità, pure non può nemmeno apparirci come un fatto della intelligenza, la quale è facoltà umana e complessa, mentre la scacchistica è una potenza extraumana e mostruosamente semplificata. Un grande poeta o un grande filosofo ce lo immaginiamo come un uomo totale: il Grande scacchista ha in sé quel tanto d’uomo, e non più, che basta a regger la sua vita fisica e gli permette di pronunciare le formule che comunicano all’umanità i suoi astrali meccanismi. Il grande scacchista vive certamente in quel clima di sacra idiozia in cui stanno immersi i matematici e i musicisti.»
Adolivio Capece