Quando si parla di sindacato bisognerebbe farlo con il rispetto che si deve ad un modello organizzativo nato per difendere i tanti sfruttati dai padroni. Non siamo di quelli che si uniscono alla narrazione comune che vuole il ‘sindacato’ male di tutto il mondo, anche se riconosciamo che spesso questo tipo di organizzazione si è trasformata da movimento a difesa dei più deboli in organismo di difesa dei privilegi di pochi.

Per questo la cause intentate dal sindacato autonomo dei tennisti PTPA ci lasciano fondamentalmente perplessi ed anche un po’ tiepidi. Che il sistema sportivo professionistico sia una grande azienda che pensa solo al profitto è un dato di fatto. Questo non vale soltanto per il tennis. E’ anche vero che nel tennis il sistema per emergere è spietato ed economicamente costoso. Lo sanno bene le tante famiglie che hanno accompagnato i propri figli sui campi e, se questi meritavano, anche in giro in Italia e in Europa, nella speranza che riuscissero a fare il grande salto. Tutto a spese proprie e senza alcun tipo di certezza che le cose sarebbero andate per il meglio. E’ vero quindi che rimane uno sport per persone facoltose e il fatto che tra i primi giocatori al mondo la maggior parte proviene da ambienti economici di livello ne è la dimostrazione plastica.

Ci sono però numerose cose che non ci convincono della PTPA e della sua lotta al sistema attuale. La prima riguarda gli scopi ultimi delle tre denunce. Come abbiamo ricordato sul precedente articolo, l’obiettivo è un risarcimento economico (negli USA) e la possibilità di rompere il dominio di ATP e WTA (in UK e Europa). Non vediamo nessun tentativo di rendere più ‘democratico’ e ‘popolare’ questo sport o di facilitare l’accesso al gioco a chi non ha i mezzi per farlo; nelle varie denunce non vi è nulla di tutto questo.

Del resto gli animatori dell’iniziativa sono tutti giocatori che nella loro carriera hanno guadagnato in premi e sponsorizzazioni più di quanto una persona normale si può sognare di fare in due vite. L’essenza del loro agire è quella di volere guadagnare ancora di più. Ricchi che vogliono diventare ancora più ricchi. Non c’è nulla di male, ma non ci sembra che si possa parlare di sindacato. Forse è meglio parlare di casta, che tutela i privilegi acquisiti.

Tra le tante singolarità della questione PTPA vs ATP, WTA e ITIA ve ne sono alcune che ci fanno riflettere.

Non abbiamo visto, tra i firmatari, anche quel Nole Djokovic, fondatore dello stesso PTPA e che furbescamente si tiene nell’ombra. Il suo montepremi è tale che se solo volesse, potrebbe risolvere i problemi di un piccolo stato africano. Questo evidentemente però non basta al serbo che, dopo aver sfidato il buon senso con la questione dei vaccini, mentre è alla ricerca del suo centesimo titolo in carriera, si diverte a manovrare le fila per assicurarsi, una volta che avrà appeso la racchetta al chiodo, magari un posto di CEO in un prossimo futuro circuito alternativo.

L’altra singolarità che troviamo sinceramente irrispettosa nei confronti soprattutto di atleti di altri sport più controllati, riguarda il fastidio palese dei ‘sindacalisti’ del PTPA per le procedure di controllo antidoping. Le hanno definite ‘invasioni della privacy e dell’intimità’ delle persone. Forse è vero ma cosa dovrebbero dire i ciclisti, sottoposti a queste invasioni da tempo e ben più fastidiose, come continui prelievi di sangue?

Siamo d’accordo: lo sport professionistico è un circo poco piacevole. Ma è giusto anche ricordare che coinvolge tutti attori ben contenti di farne parte, per la fama e i guadagni che assicura. Del resto non abbiamo sentito lamentele di Djokovic negli anni passati, soprattutto quando era ancora un rampante in ascesa e passava da una vittoria all’altra. Era forse troppo concentrato a contare i guadagni per accorgersi di far parte di un sistema in cui sono tutti padroni e gli sfruttati non siedono neanche al tavolo dei lauti compensi?

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Antonio Ungaro
Giornalista sportivo e blogger. I primi ricordi sportivi sono le imprese di Gimondi al Giro d'Italia e il 5 Nazioni raccontato da Paolo Rosi. Dietro ad ogni sportivo c'è una storia da raccontare; tutte insieme raccontano un Paese che cambia. Sono convinto, parafrasando Mourinho, che chi sa solo di uno sport non sa nulla di sport.

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