E fanno sette. Sette titoli mondiali nel ciclocross come Eric De Vlaminck che sembrava inarrivabile e che ora però vacillla perchè è chiaro che non è finita qui.

Mathieu van der Poel, un paio di giorni fa a Levin, nel Nord della Francia, sulle strade dove si corre la Roubaix, a una quindicina di chilometri dal confine belga, nella patria di quel ciclismo fatto di storia, di ruote grasse, di fango, dove bisogna sporcarsi le mani e non solo quelle, ha fatto ciò che tutti si aspettavano facesse. Cioè ha vinto.

E’ partito davanti, è arrivato davanti e si è messo la medaglia d’oro al collo. Senza tante storie, senza troppi patemi d’animo, apparentemente senza far fatica. Così ormai ci ha abituato questo fuoriclasse assoluto che domina come dominavano i grandi di un tempo ma che è più che mai figlio dei nostri giorni, a suo agio in bici come sui social o come testimonial di orologi da 300mila euro da portare in gara. Ma tant’è. Cambiano i tempi e cambiano i campioni e oggi c’è il ciclismo di Vdp e quello di tutti gli altri che, pesa dirlo, è un bel po’ di gradini sotto, che fa fatica a competere, che fa una tremenda fatica a tenergli le ruote, che ormai sembra dover convivere con un evidente senso di soggezione. Tant’è che quando l’olandese decide di accelerare prende e se ne va senza neppure impegnarsi troppo. Almeno così pare, tanta è la classe che fa sembra facile anche ciò che ovviamente non lo è.

Tant’è che quando Vdp allunga in un attimo dieci secondi diventano venti, diventano mezzo minuto, un minuto, due  e fine dei giochi.  Così ovunque. Sulla strada, sul pavè, nel fango di Levin: l’olandese sembra volare mentre gli altri arrancano e dopo un giro alzano bandiera bianca. 

In Francia davanti a una marea di appassionati, davanti ad una folla colorata e felice di tifosi tutti aspettavano la sfida delle sfide tra Mathieu van der Poel e Wout van Aert, rivali di sempre, campioni capaci di infiammare qualsiasi gara ma soprattutto il ciclocross dove sono nati e cresciuti e dove tornano perchè al cuor non si comanda. Il “duello” non c’è stato, ed è stato un vero peccato perchè il fiammingo è l’unico che può competere, che può giocarsela, che può batterlo. Se Van der Poel “entusiama”, Van Aert “emoziona” ed ogni gara che li vede uno di fronte all’altro diventa spettacolo allo stato puro. Soprattutto il ciclocross.

Classe, abilità, fatica, rivalità, potenza e incertezza fanno di questo pedalare “operaio” il nuovo show,  terra di conquista di grandi squadre e grandi campioni, teatro di imprese d’altri tempi, senza troppi calcoli. Un mondo a sè, un mondo a parte. Un  pianeta che brilla e che è  sempre meno la palestra open air di  chi vuol svernare in attesa delle gare sulla strada. 

Il ciclocross racconta qual è la nuova frontiera del ciclismo, racchiude tutto il fascino di un sport nato alla fine dell’Ottocento nelle pianure della Francia e del nord Europa quando i ciclisti, che non avevano timore di uscire dalle vie principali, si azzardavano a pedalare tra campi e sentieri. Ciò era e ciò è rimasto. C’era una volta il ciclocross e c’è ancora. E se la maglia iridata è sulle spalle di un campione come Mathieu è in “ottime mani”.

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Antonio Ruzzo
Sposato, con tre figli, giornalista professionista dal 1995. Il mestiere mi ha portato per anni a raccontare storie di nera e di morti ammazzati, la vita a inseguire sogni e passioni in bicicletta. Triatleta (scarso) da anni racconto quotidianamente lo sport nel blog “Vado di corsa” sul sito di un quotidiano nazionale. Ho un debole per chi non vince mai, per chi sa che il traguardo è lontanissimo ma non molla e per chi impazzisce per il profumo dell'olio canforato.

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